Garibaldi: la notte dei borseggi e delle rapine
Nel cuore della notte milanese, tra Garibaldi e Centrale, si muove un’umanità dimenticata. Ragazzi e ragazze che vivono di piccoli furti, borseggi ai passanti, rapine improvvisate ai coetanei. La “maranza” sedicenne intervistata dal Corriere racconta un mondo dove rubare è routine, dove la violenza è un linguaggio appreso per strada, e dove i più giovani vengono spinti a “farsi le ossa” strappando portafogli o telefonini davanti ai locali.
Una giungla urbana dove la legge non arriva e dove la presenza straniera, soprattutto nordafricana, ha costruito una sottocultura parallela fatta di droga, alcol, scippi e corpi venduti. Un’economia criminale di sopravvivenza, che Milano – culla del “modello europeo” – sembra accettare come inevitabile.
Una gioventù che ride nel sangue
“Quando ho visto il sangue sul pavimento, ridevo senza sapere perché”, dice la ragazza. Parole che gelano. Perché dietro quella risata non c’è cinismo, ma il vuoto. La perdita totale di empatia, di senso del bene e del male. È l’effetto di un degrado profondo che nasce dalla strada ma che affonda le radici nella resa culturale e istituzionale di una città che ha scelto di guardare altrove.
Milano, vetrina del progresso e delle mode, non è più in grado di proteggere i suoi figli. Mentre la giunta si concentra su piste ciclabili e slogan ecologisti, la capitale morale d’Italia diventa ogni notte terreno di caccia per bande di giovanissimi, spesso figli di immigrati senza patria e senza identità.
La città che finge di non vedere
Centrale, Garibaldi, Gae Aulenti, Navigli: nomi che evocano modernità, ma che al calare del sole diventano sinonimo di paura. Qui si consumano le notti dei maranza: crack cucinato in strada, dosi scambiate come figurine, cellulari strappati di mano a chi osa attraversare da solo, collanine strappate a morsi durante una colluttazione.
Questa non è più microcriminalità, ma una forma di dominio urbano. Una rete di illegalità giovane e aggressiva, cresciuta tra il permissivismo e l’indifferenza.
Famiglie assenti, Stato complice
La ragazza parla di un padre violento e di una madre stremata, di notti passate a scappare e di giorni trascorsi nel vuoto. È il volto di un’Italia che ha accolto senza integrare, che ha riempito le periferie di promesse senza regole.
La responsabilità non è solo familiare: è collettiva. È politica.
Chi governa Milano non può continuare a nascondere il fallimento del proprio modello di accoglienza dietro la retorica del “vivere insieme”. Perché qui nessuno vive più, si sopravvive.
Chi ci stiamo portando a casa?
Alla fine, resta la domanda che nessuno vuole pronunciare ma che tutti si pongono guardando le immagini delle risse, delle rapine, dei coltelli tra adolescenti: chi ci stiamo portando a casa?
È giusto accogliere chi non vuole integrarsi, chi trasforma le nostre città in territori di scontro, chi semina violenza e paura?
L’integrazione non è un obbligo morale ma un patto civile. E chi lo tradisce non può continuare a vivere indisturbato dentro le nostre mura, come se nulla fosse.