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La farsa dello sciopero: cortei ideologici e città in ostaggio

20 Giu 2025 - Italia

Nessuna rivendicazione sindacale concreta, solo cortei politici contro Israele, la NATO e il governo Meloni. Intanto le città si bloccano.

La farsa dello sciopero: cortei ideologici e città in ostaggio

Sciopero “generale”, disagio reale

Milano bloccata, trasporti rallentati, cittadini ostaggio dei soliti presìdi di minoranza. Lo sciopero generale indetto da USB per oggi, 20 giugno, ha mostrato ancora una volta quanto lontani siano certi sindacati dai problemi concreti dei lavoratori. Nessuna piattaforma rivendicativa reale, nessuna richiesta di rinnovo contrattuale urgente, nessun riferimento diretto a salari, sicurezza o welfare. Solo slogan ideologici: “Stop al genocidio in Palestina”, “Fuori l’Italia dalla NATO”, “Basta armi a Israele”.

Una piattaforma che sembra più un volantino di un collettivo studentesco che un documento sindacale. E intanto le città pagano il prezzo, in termini di mobilità bloccata, servizi pubblici interrotti e famiglie lasciate sole.

Il sindacalismo ideologico blocca la società civile

USB, accompagnata da CUB e SGB, ha trasformato lo sciopero in una manifestazione anti-governativa, anti-NATO, anti-Israele, anti-Meloni. Ma tutto questo con che diritto nei confronti dei cittadini che non possono prendere un treno, che perdono ore di lavoro, che devono rinunciare a visite mediche, che devono riorganizzare la giornata per far fronte al caos imposto da pochi?

Lo sciopero, non altro che un mezzo ottocentesco e superato usato per portare avanti un’agenda geopolitica radicale. È uno sciopero contro le scelte di politica estera del governo, non contro le condizioni materiali di vita dei lavoratori. Ma non è questo il ruolo del sindacato, e soprattutto non è questo lo scopo per cui esiste il diritto allo sciopero.

Dagli slogan pacifisti alla realtà del lavoro

Il paradosso è che proprio mentre USB dice di difendere i lavoratori, li lascia senza mezzi pubblici, blocca i trasporti e paralizza i centri urbani. I presìdi di oggi non chiedono aumenti salariali né migliori condizioni nei luoghi di lavoro, ma la rottura dell’alleanza con Israele e la fine del supporto militare all’Ucraina. Una retorica che può piacere in qualche assemblea politica, ma che non ha nulla a che vedere con l’interesse concreto del lavoratore medio italiano.

Con lo slogan “Abbassate le armi, alzate i salari”, si tenta goffamente di mascherare un’agenda geopolitica con una patina sociale. Ma a conti fatti, nessuno stipendio aumenterà grazie a questo sciopero, e nessun contratto sarà migliorato da un corteo in via Larga con bandiere rosse e cori contro l’Occidente.

Una sinistra radicale in cerca di visibilità

Non si può ignorare l’elemento politico. Quando si scende in piazza per denunciare l’“imperialismo occidentale”, per chiedere l’embargo su Israele, per accusare l’Italia di “complicità nei crimini di guerra”, non si sta facendo sindacato. Si sta facendo militanza. E il rischio è che una parte del sindacalismo italiano perda definitivamente credibilità, trasformandosi in un soggetto politico extraparlamentare, scollegato dal mondo reale.

Intanto, mentre USB lancia anatemi contro la NATO, un lavoratore in turno serale resta senza tram, una madre deve riorganizzare i suoi spostamenti, un piccolo imprenditore perde un cliente. Nessuno di questi sarà risarcito. E nessuno sarà rappresentato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Articolo scritto da:
Carolina Volta

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