Netanyahu, Gaza e il futuro della Palestina: autodifesa o strategia di annessione?
29 Mag 2025 - Medio Oriente
Mentre Israele dichiara di combattere Hamas, le operazioni sul campo e il sostegno della destra religiosa pongono interrogativi inquietanti: c’è il rischio che il conflitto venga usato per ridefinire i confini, negando ai palestinesi ogni prospettiva di Stato?

Una guerra che ha superato il limite della legittima difesa
Doveva essere una guerra contro il terrorismo di Hamas, dopo l’attacco barbaro del 7 ottobre. Un’operazione per restituire sicurezza a Israele e restituire dignità a una nazione ferita. Ma a otto mesi dall’inizio dell’offensiva, la situazione nella Striscia di Gaza appare sempre più lontana da una guerra mirata e sempre più simile a un intervento di destabilizzazione permanente.
Con oltre 35.000 vittime, tra cui migliaia di donne e bambini, e con interi quartieri rasi al suolo, la credibilità della narrativa israeliana vacilla. Ed è proprio in questo contesto che l’appello del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani – “basta bombardamenti, serve rispetto del diritto umanitario” – risuona come un richiamo di responsabilità verso un alleato storico, ma che oggi rischia di oltrepassare la linea rossa della legittimità internazionale.
Il peso della destra nazional-religiosa nella politica israeliana
Il governo di Benjamin Netanyahu non è un esecutivo qualsiasi. È il più spostato a destra nella storia di Israele, composto da ministri che – in molti casi – hanno posizioni esplicitamente favorevoli alla colonizzazione di Gaza e alla sua “epurazione” demografica. Figure come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich non si limitano a sostenere la guerra: vogliono usarla come leva per cancellare ogni ipotesi di Stato palestinese.
Queste correnti spingono da mesi per il reinsediamento ebraico nella Striscia e per il controllo militare permanente. E sebbene Netanyahu continui a dichiarare che “Israele non vuole governare Gaza”, le azioni contraddicono le parole: creazione di “zone cuscinetto”, distruzione sistematica delle infrastrutture civili e progetti per corridoi strategici fanno pensare piuttosto a una strategia di lungo termine per impedire qualsiasi autonomia palestinese.
Il ruolo dei coloni: estremismo ideologico e influenza politica
Il movimento dei coloni, storicamente radicato in Cisgiordania, sta tornando a farsi sentire anche su Gaza. Cortei, pressioni politiche e manifestazioni con lo slogan “Ritorniamo nella Striscia” hanno avuto ampia eco, sostenuti da una parte del governo e dei settori religiosi più intransigenti.
Questi attori vedono nella guerra l’occasione storica per correggere – secondo loro – gli errori del disimpegno unilaterale del 2005 e rimettere Gaza sotto sovranità israeliana. Ma il prezzo di questa visione è altissimo: la negazione di ogni possibilità di convivenza e la costruzione di un futuro basato su esclusione e dominio, non su pace e sicurezza condivisa.
L’Italia e l’Europa: fermezza, non ambiguità
In questo quadro, la posizione italiana – che condanna il terrorismo ma chiede il rispetto delle convenzioni umanitarie – è tra le più equilibrate del panorama occidentale. Tajani ha chiarito che non esiste una “soluzione israeliana” al problema palestinese che passi per l’uso della forza, e che ogni progetto di espulsione o reinsediamento coattivo è incompatibile con i valori dell’Occidente.
All’interno dell’UE, il blocco mediterraneo guidato da Roma sta tentando di affermare una linea di terza via: né appoggio acritico a Israele, né adesione all’antisionismo ideologico che aleggia in parte della sinistra europea. È una linea difficile da sostenere, ma necessaria. Perché difendere Israele non può significare assecondarne ogni deriva. E difendere i diritti dei palestinesi non deve tradursi in giustificare Hamas.
Quale futuro per Gaza e per il popolo palestinese?
La vera domanda da porsi oggi non è solo come fermare la guerra, ma cosa verrà dopo. Se Israele davvero intende occupare Gaza militarmente o delegittimare ogni forma di rappresentanza palestinese, allora siamo davanti a un progetto di dislocazione territoriale che cambierà per sempre il volto del Medio Oriente.
Il rischio è quello di creare un precedente pericoloso: un conflitto nato per rispondere al terrorismo che si trasforma in una lunga e silenziosa strategia di eliminazione di un popolo. E in questo scenario, l’Europa, gli Stati Uniti e il mondo arabo moderato hanno il dovere morale e politico di fermarsi, riflettere e agire. Perché Gaza, oggi, non è solo una ferita aperta nel conflitto israelo-palestinese. È un banco di prova sulla credibilità dell’ordine internazionale stesso.