Un appello che sa di resa politica
Volodymyr Zelensky ha telefonato sabato 11 ottobre al presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, chiedendogli di “mediare la pace” tra Russia e Ucraina, sul modello dell’accordo raggiunto in Medio Oriente.
“Se una guerra può essere fermata in una regione, allora anche altre guerre possono essere fermate, compresa quella russa”, ha dichiarato Zelensky in un post sui social, congratulandosi con Trump per il successo diplomatico ottenuto nelle ultime settimane.
Dietro queste parole, tuttavia, si intravede la stanchezza di un leader che inizia a misurarsi con i limiti del proprio consenso e la fine delle illusioni. Dopo oltre tre anni di conflitto, l’Ucraina appare sempre più sola: le armi occidentali non bastano più, gli alleati europei si mostrano tiepidi e la narrativa della “resistenza eroica” perde vigore di fronte alla realtà economica e umanitaria del Paese.
L’appello a Trump, più che un gesto di fiducia, sembra quindi un atto di sopravvivenza politica.
Il doppio volto dell’appello di Kiev
Zelensky ha voluto accreditarsi come interlocutore costruttivo, capace di riconoscere il successo americano in Medio Oriente e di chiedere, quasi implorare, un intervento analogo in Europa. Ma la verità è che il presidente ucraino oggi non detta più l’agenda, la subisce.
L’America di Trump, tornata al centro della scena internazionale, non è quella ideologica di Biden. È un’America pragmatica, che parla con tutti e che considera la pace un affare di potere, non di propaganda. Per questo, l’appello di Zelensky suona ambiguo: da un lato riconosce la leadership di Washington, dall’altro svela il fallimento di una strategia interamente basata sul sostegno militare dell’Occidente progressista.
Trump, dal canto suo, potrebbe cogliere l’occasione per segnare una nuova linea di discontinuità: chiudere una guerra che il vecchio establishment aveva alimentato in nome della “democrazia”, ma che in realtà ha ridotto l’Europa in una crisi senza precedenti.
Intanto la guerra non si ferma
Mentre i telefoni della diplomazia si muovono, sul terreno il conflitto continua a mietere vittime. Nella regione di Chernihiv, nel nord dell’Ucraina, due lavoratori di una compagnia elettrica sono stati uccisi e altri quattro feriti in un attacco con droni. Le autorità locali parlano di decine di droni russi lanciati nella notte, molti dei quali diretti contro infrastrutture energetiche e civili.
La difesa aerea ucraina è riuscita ad abbatterne la maggior parte, ma non a impedire danni e incendi in più zone del Paese. È il segno che la guerra, nonostante la propaganda di Kiev, resta totalmente fuori controllo. Il sistema energetico nazionale è allo stremo, e ogni nuovo raid rischia di lasciare intere città senza luce e riscaldamento alle porte dell’inverno.
In queste condizioni, il richiamo alla pace suona come una richiesta disperata: l’Ucraina non ha più la forza di combattere da sola, e la sua sopravvivenza dipende ormai dalla volontà di chi, come Trump, ha la capacità e il coraggio di cambiare gli equilibri internazionali.
La scommessa di Trump: diplomazia o realpolitik?
Donald Trump non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sulla telefonata con Zelensky, ma il tono dell’incontro — descritto da Kiev come “produttivo” — suggerisce che il presidente americano stia valutando con attenzione l’opportunità di un ruolo da mediatore.
Non sarebbe la prima volta che Trump rovescia il tavolo diplomatico, imponendo la propria visione: lo ha fatto con Corea del Nord, Israele e ora potrebbe tentare lo stesso con Russia e Ucraina.
Per l’ex tycoon, la pace non è una concessione morale, ma una vittoria strategica: significa riportare gli Stati Uniti al centro della diplomazia mondiale e, al tempo stesso, ridimensionare l’influenza dei circoli progressisti di Bruxelles e del Pentagono.
Una mediazione americana, condotta da Trump, sarebbe quindi un colpo geopolitico di portata storica — e anche una sconfitta simbolica per l’Europa di Macron e Scholz, che per tre anni hanno predicato la pace continuando a inviare armi.
La crisi di legittimità di Zelensky
In patria, Zelensky appare sempre più isolato. Il suo governo è logorato, l’economia in ginocchio, e la fiducia dei cittadini si è sgretolata sotto il peso delle perdite e della corruzione interna.
Chiedere aiuto a Trump significa ammettere che il sogno di un’Ucraina “eroica e vincente” si è dissolto. È la resa simbolica di un leader che aveva promesso di portare il Paese in Europa e che oggi ne chiede la salvezza all’America.
Il problema, però, è che il tempo gioca contro di lui. Ogni giorno di guerra costa vite, energia e consenso. E se Trump dovesse accettare di mediare, non lo farà per salvare Zelensky, ma per salvare l’ordine mondiale da una guerra che non serve più a nessuno, se non ai trafficanti d’armi e ai burocrati di Bruxelles.
Un bivio storico per l’Europa
L’eventuale mediazione di Trump rappresenterebbe un punto di svolta epocale: per la prima volta dopo decenni, gli Stati Uniti potrebbero tornare a esercitare una diplomazia basata sulla forza negoziale e non sull’imposizione ideologica.
Per la Russia, significherebbe avere di fronte un interlocutore pragmatico, capace di riconoscere gli equilibri geopolitici senza demonizzazioni.
Per l’Europa, invece, sarebbe uno schiaffo politico: la conferma che la pace non nasce dai vertici di Bruxelles ma dai tavoli di chi ha la forza di decidere davvero.
Trump lo ha già dimostrato in Medio Oriente: quando si sceglie il realismo al posto della retorica, la pace diventa possibile. E forse, come suggerisce oggi l’appello di Zelensky, anche l’Ucraina sta iniziando a capirlo.
Fonti
The Guardian
Moneycontrol
Axios
Ukrinform
Reuters