La diplomazia reale, non quella dei cortei
Mentre in Europa e nelle piazze di sinistra si agitano bandiere, slogan e “flottiglie della pace” che finiscono spesso in provocazioni e scontri, a Il Cairo si apre qualcosa di infinitamente più concreto: il primo vero tavolo negoziale tra Israele e Hamas, reso possibile grazie all’azione diplomatica di Donald Trump.
Non le grida dei “compagni” o gli attivisti travestiti da pacifisti, ma la fermezza di un leader capace di mettere tutti davanti alla realtà: la guerra va fermata solo attraverso accordi, non attraverso la retorica.
Gli Stati Uniti, sotto la guida di Trump, hanno mediato per settimane con Israele, Egitto, Qatar e perfino Turchia, fino a ottenere ciò che nessun leader occidentale era riuscito a garantire in un anno di conflitto: la disponibilità delle due parti a sedersi, anche indirettamente, e iniziare un vero percorso di cessate il fuoco.
Il ruolo dell’Egitto e la cornice dei negoziati
Le trattative si tengono a Sharm el-Sheikh, dove l’Egitto svolge il ruolo di mediatore neutrale e garante del rispetto dei tempi e delle condizioni di sicurezza.
Trump ha inviato il suo team diplomatico con un obiettivo preciso: fermare l’uccisione di civili e creare le basi per una stabilità duratura. Il piano statunitense, articolato in venti punti, prevede una tregua iniziale, lo scambio di ostaggi tra Hamas e Israele e un graduale ritiro delle forze israeliane da parte della Striscia di Gaza sotto supervisione internazionale.
La fase più delicata è quella attuale, in cui si lavora sugli aspetti logistici e sulle garanzie reciproche. Ma il fatto stesso che Hamas accetti di partecipare, pur indirettamente, segna un punto di svolta che la diplomazia progressista non era mai riuscita a raggiungere.
Gli attori in campo e le nuove dinamiche
Da un lato Israele, guidato da Benjamin Netanyahu, che pur mantenendo la linea dura sulla sicurezza nazionale riconosce la necessità di liberare gli ostaggi e mettere fine alla pressione internazionale.
Dall’altro Hamas, che accetta di discutere un piano proposto da Washington, spinto anche dal collasso umanitario di Gaza e dalla consapevolezza che la guerra non potrà essere vinta.
L’Egitto e il Qatar fanno da garanti, ma la regia resta saldamente americana. È la diplomazia diretta e concreta di Trump – la stessa che aveva portato agli Accordi di Abramo – a dettare la tempistica e i contenuti. Non mediazioni europee confuse, non slogan, ma strategia, interesse e pragmatismo.
Trump cambia la narrazione della pace
Questa volta, a differenza delle iniziative ideologiche del passato, la pace non nasce da un palco né da un corteo, ma da un tavolo negoziale.
Trump ha rotto la retorica della “pace a parole”, riportando il tema della sicurezza e della vita umana al centro.
Il suo messaggio è chiaro: “non si ferma la guerra accusando l’Occidente o sventolando bandiere nei cortei; la si ferma con accordi, scambi e garanzie reciproche”.
Il presidente americano, accusato da molti progressisti di essere divisivo, sta invece compiendo ciò che i paladini del “dialogo universale” non hanno mai ottenuto: un reale cessate il fuoco.
Le difficoltà ancora aperte
Restano questioni complesse: il disarmo di Hamas, la gestione della sicurezza a Gaza, la creazione di un’autorità di transizione che non sia ostaggio delle fazioni.
Ma la differenza sostanziale è che oggi questi temi vengono trattati in un contesto di trattativa, non più sul campo di battaglia.
Israele, pur ferma nelle sue posizioni, ha già accettato una prima linea di ritiro da alcune aree della Striscia, mentre Hamas mostra aperture su scambi umanitari. È un passo piccolo ma concreto, che vale più di mille “missioni simboliche” finite in disastri mediatici.
La vera pace non nasce dai cortei
Gli slogan non liberano ostaggi, non sfamano bambini, non ricostruiscono case. La diplomazia sì.
Ecco perché la svolta impressa da Trump rappresenta un cambio di paradigma: la pace torna a essere un obiettivo politico, non un pretesto ideologico.
Il mondo osserva Il Cairo con speranza, ma anche con la consapevolezza che la vera leadership si misura nei fatti. E oggi, i fatti dicono che è stato Donald Trump – non l’ONU, non Bruxelles, non le ONG militanti – a riaprire la strada per far smettere l’uccisione di innocenti in Israele e a Gaza.