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Roma: spiritualità dell’ordine e identità nell’eternità

12 Mag 2025 - Approfondimenti Politici

Non eravamo solo un popolo tra i popoli: eravamo la civiltà che diede nome al mondo. E oggi, nella confusione dell’Occidente, solo chi riscopre Roma può ritrovare se stesso.

Roma: spiritualità dell’ordine e identità nell’eternità

La parola che ordina il mondo

Nel principio era il Verbo. Ma anche Roma, come ogni grande civiltà, iniziò con la parola. Non una parola cantata, come quella dei poeti greci, ma una parola pronunciata per ordinare, per fondare, per vincolare. Ius, fas, civitas, senatus, populus: ogni termine latino è un sigillo sul caos. I Romani non si limitarono a vivere: essi nominarono, e nel nominare crearono.

Nel Senato, nel Foro, nei templi e nei tribunali, ciò che agiva non era solo la volontà di potere, ma una sapienza più profonda, una teologia dell’ordine. Roma non conquistava, trasfigurava. Non organizzava lo spazio, sacralizzava il tempo. E dove posava i suoi confini, nasceva il mondo.

La mente imperiale: architettura dell’essere

Roma è la forma visibile dell’Invisibile. In un mondo in cui il pensiero umano tendeva a disperdersi nell’indistinto, Roma introdusse la linea retta, la misura, il principio. Dove i barbari vedevano la foresta, Roma tracciava la strada. Dove regnava la tribù, Roma concepiva la res publica. Non è un dettaglio storico: è una cosmologia incarnata.

Lo Stato, così come lo conosciamo oggi, non è altro che il riflesso pallido della mente romana, che seppe pensare il potere non come semplice dominio, ma come ordo, cioè armonia delle parti. Il diritto, ancora oggi, vive della stessa grammatica. La stessa Italia, pur nella sua fragilità, si regge su queste fondamenta invisibili.

Il sacro romano: ierofania della legge

Per il romano, ogni atto pubblico era un rito. La fondazione di una città, l’emanazione di una legge, perfino la guerra: tutto aveva un carattere sacrale. La lex non era solo norma, era rivelazione. Chi trasgrediva la legge non era solo colpevole davanti agli uomini, ma empio davanti agli dèi.

E questa sacralità non è scomparsa. Vive, nascosta, nella nostra coscienza collettiva. L’Italia ha ancora l’istinto della misura, del bello ordinato, del confine che protegge e distingue. Quando un italiano dice “non si fa”, non parla solo di morale: parla con la voce remota della mos maiorum, della tradizione non scritta che custodisce l’anima di un popolo.

Roma è la nostra grande madre

Ogni italiano, anche se lo ignora, è figlio di Roma. E Roma non è una reliquia, né una parente dimenticata. È la nostra grande madre. Colei che ci ha partoriti non solo nella carne, ma nello spirito. Colei che ha tracciato i confini del mondo visibile e invisibile, scolpendo l’essere stesso della nostra identità.

Roma non chiede nostalgia, ma riconoscimento. Non ci impone un culto sterile, ma una fedeltà vitale. Essa vive nel battito delle nostre città, nei codici che ancora regolano la giustizia, nell’intuizione profonda che l’ordine non è schiavitù, ma via alla libertà. Dove la modernità vacilla, Roma resiste. Dove tutto si dissolve, Roma ancora tiene.

Un ritorno necessario

Chi oggi pretende di fondare l’Italia su valori “nuovi” e sradicati, costruisce sulla sabbia. La nostra terra non ha bisogno di essere reinventata: ha bisogno di essere riconosciuta. Roma è il fondamento, il grembo generativo da cui ancora può nascere un’Italia degna di sé. La sua legge, la sua forma, la sua spiritualità dell’ordine non sono cenere, ma brace sotto cui arde ancora lo Spirito.

Ritornare a Roma non è regredire: è ascendere. È rialzarsi nella verticalità della civiltà. Roma è madre perché è fonte: fonte di misura, di equilibrio, di senso. E chi la rinnega, rinnega se stesso.

Finché anche un solo italiano saprà dire — con fierezza e devozione — “io vengo da Lei”, Roma non morirà. E l’Italia, finalmente, potrà tornare a essere se stessa: non un’espressione geografica, ma una missione eterna.

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