La riforma della giustizia approvata alla Camera: un passaggio storico
Il 18 settembre 2025 resterà come una data spartiacque. In quella giornata la Camera dei Deputati ha approvato in terza lettura la riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. I voti favorevoli sono stati 243, i contrari 109. Non è stata raggiunta la maggioranza qualificata dei due terzi — pari a 267 voti — e dunque si apre la strada alla possibilità di un referendum confermativo. Ma al di là dei tecnicismi numerici, il segnale politico è inequivocabile: la maggioranza ha dimostrato di avere la forza e la determinazione per superare una delle ambiguità più gravi del nostro sistema giudiziario, quella che ha sempre mescolato il ruolo di chi accusa e quello di chi giudica.
Ora il provvedimento passa al Senato, dove dovrà essere approvato in seconda deliberazione. Se anche lì non si raggiungerà il quorum dei due terzi, la parola passerà direttamente al popolo italiano. E da giurista non posso che accogliere con favore quest’eventualità: la giustizia appartiene ai cittadini, non solo alla corporazione delle toghe.
Che cosa significa “separazione delle carriere”
La questione può sembrare tecnica, ma riguarda molto da vicino la vita di ciascuno di noi. Oggi un magistrato può svolgere, nell’arco della sua carriera, sia funzioni requirenti — quelle del pubblico ministero che rappresenta l’accusa — sia funzioni giudicanti, ossia quelle del giudice che deve emettere la sentenza. Questo continuo intreccio di ruoli ha creato un sistema ambiguo, nel quale giudici e pubblici ministeri condividono lo stesso corpo, le stesse scuole di formazione, a volte persino la possibilità di passare da una funzione all’altra.
Per il cittadino comune questo si traduce in un dubbio costante: il giudice che deve decidere sulla mia vita o sulla mia causa è davvero indipendente, o appartiene allo stesso mondo del pubblico ministero che mi accusa? Con la riforma questo nodo viene sciolto: le carriere saranno distinte in maniera netta e nessuno potrà più passare dall’accusa al giudizio con la stessa disinvoltura. È un ritorno a un principio cardine del diritto: nessuno può essere giudice in una causa che riguarda il proprio ambiente.
I vantaggi per i cittadini
Il primo beneficio è la fiducia. Sapere che chi ti giudica non appartiene allo stesso corpo di chi ti accusa restituisce credibilità allo Stato di diritto. La linearità dei processi ne guadagna, perché ogni parte ha un ruolo chiaro e distinto: il pubblico ministero accusa, il giudice decide, la difesa difende.
Altro vantaggio è la responsabilità. La riforma prevede infatti anche una Corte disciplinare autonoma per i magistrati. Significa che eventuali abusi non verranno più giudicati all’interno della stessa corporazione, ma davanti a un organo ad hoc che potrà intervenire con rigore.
C’è poi la questione dei tempi. Processi più chiari e ruoli più definiti significano meno sovrapposizioni, meno passaggi inutili, meno contenziosi interni. In altre parole, si riduce l’attesa di chi aspetta una sentenza, con un vantaggio diretto per cittadini e imprese. Perché giustizia rapida non vuol dire solo giustizia più equa, ma anche maggiore competitività del Paese.
Infine c’è l’aspetto economico e sociale. Processi più rapidi e prevedibili significano meno costi legali, meno oneri per lo Stato, meno stress per chi attende giustizia. Ma anche un segnale positivo per chi vuole investire in Italia: nessuno mette capitali in un Paese dove una causa civile dura dieci anni.
I prossimi passaggi
Dopo l’approvazione del 18 settembre alla Camera, il provvedimento è ora atteso al Senato per la seconda deliberazione. Se anche lì non verrà raggiunta la maggioranza qualificata dei due terzi, il testo dovrà passare al vaglio di un referendum confermativo. In quel caso saranno i cittadini a dire la parola definitiva, e sarà un’occasione storica: finalmente non si discuterà più di giustizia solo nelle aule universitarie o nei convegni dei magistrati, ma nelle piazze e nei seggi, con il popolo sovrano chiamato a decidere.
Lo scontro politico e la resistenza delle toghe
Come era prevedibile, la sinistra ha già gridato all’allarme, sostenendo che la riforma rappresenterebbe un attacco all’indipendenza della magistratura. È un argomento debole, vecchio e stanco, che non tiene conto della realtà. Separare le carriere non significa sottomettere i giudici al potere politico, ma rafforzarne l’autonomia.
La resistenza più dura viene però da una parte della magistratura stessa, quella più corporativa. Per decenni alcuni magistrati hanno beneficiato della possibilità di oscillare fra ruoli diversi, accumulare potere, costruire reti di influenza trasversali. Con la riforma questi privilegi vengono meno, e non stupisce che proprio i magistrati più politicizzati siano oggi in prima fila contro la riforma. Non difendono l’indipendenza della giustizia, ma i loro equilibri interni, la loro capacità di condizionare la vita pubblica italiana ben oltre i confini delle aule di tribunale.
Un atto di civiltà giuridica
La giornata del 18 settembre 2025 segna dunque un passaggio fondamentale. La Camera ha dato il via libera a una riforma che cambia radicalmente il nostro ordinamento, restituendo trasparenza, fiducia ed efficienza. Ora la sfida passa al Senato e, se necessario, al giudizio dei cittadini.
Questa non è una battaglia ideologica, come vorrebbe la sinistra. È un atto di civiltà giuridica, che allinea l’Italia agli standard delle democrazie più mature. Se i cittadini diranno sì, avremo finalmente un sistema in cui chi accusa e chi giudica non sono mai la stessa persona, e in cui i magistrati saranno chiamati a rispondere non solo a se stessi, ma al Paese.