L’ultima sfida di Khamenei: Teheran alza la posta
18 Giu 2025 - Medio Oriente
Nel cuore dell’escalation mediorientale, il leader iraniano respinge l’ultimatum USA e promette ritorsioni “irreparabili”. Un segnale al mondo e un messaggio all’interno.

Khamenei respinge la resa: la sfida come strumento di legittimazione
Nel suo discorso odierno, la Guida Suprema della Repubblica Islamica ha tracciato una linea netta: nessuna resa, nessun compromesso. Il messaggio è diretto sia all’esterno – con riferimento all’ultimatum del presidente Trump – sia all’interno, dove l’élite teocratica necessita oggi più che mai di compattezza ideologica per mantenere il controllo. Parlare di “dignità” e “coraggio” del popolo iraniano non è solo retorica: è strategia per legittimare un apparato politico-militare in difficoltà economica ma ancora forte sul piano simbolico e operativo.
Una minaccia calibrata: “Danni irreparabili” come deterrenza
Nel lessico della dissuasione iraniana, l’espressione “danni irreparabili” assume un significato tecnico. È un segnale chiaro agli Stati Uniti: un intervento diretto nel conflitto con Israele non sarebbe privo di costi strategici. Teheran punta sulla minaccia asimmetrica: cyber-attacchi, attacchi navali nello Stretto di Hormuz, utilizzo delle milizie regionali in Siria, Libano e Yemen, e sabotaggi energetici. L’Iran sa di non poter vincere in uno scontro diretto, ma può rendere il prezzo troppo alto. Il riferimento implicito è alla capacità statunitense di colpire siti come Fordow con ordigni anti-bunker, ma anche al rischio che ciò comporterebbe una reazione a catena.
Israele nel mirino: escalation a finalità strategica
L’annuncio di Khamenei secondo cui “la battaglia è cominciata” e che “non ci sarà misericordia” per Israele va letto in chiave dottrinaria. Per la Repubblica Islamica, il conflitto con il “regime sionista” è parte integrante della propria identità strategica. L’escalation non è solo militare, ma anche comunicativa. Gli attacchi missilistici e l’impiego di droni segnalano che Teheran sta utilizzando l’attuale crisi per riaffermare il proprio ruolo come potenza regionale guida del fronte anti-israeliano.
Un conflitto multilivello: il ritorno della guerra indiretta
L’attuale confronto tra Iran e Israele – con il possibile coinvolgimento diretto o indiretto degli Stati Uniti – rientra in un paradigma di conflitto a più livelli. Da un lato lo scontro tra Stati e alleanze, dall’altro quello tra milizie, tecnologie emergenti e guerra dell’informazione. Le forze israeliane hanno condotto azioni mirate contro centri nevralgici del programma missilistico iraniano, ma il vero terreno di scontro sarà la tenuta delle linee di rifornimento e la capacità dell’Iran di attivare i suoi proxy regionali. Ogni attacco israeliano, infatti, alimenta la narrativa della resistenza, consolidando Teheran tra gli attori “determinanti” nel Levante.
Trump e la strategia dell’equilibrio instabile
La posizione dell’amministrazione Trump, tra fermezza e diplomazia pragmatica, mostra un cambio di paradigma rispetto al multilateralismo debole dell’era Biden. L’invito alla resa rivolto all’Iran è parte di una strategia coerente di pressione massima. Ma l’elemento più interessante è la disponibilità a coinvolgere attori esterni come Vladimir Putin nel ruolo di mediatore: una mossa che mira a escludere l’Europa e a sfruttare le crepe nell’asse Mosca-Teheran. L’obiettivo? Ricostruire un ordine multipolare favorevole agli interessi occidentali, ma su nuove basi.
L’Iran gioca sul filo della deterrenza
Il discorso di Khamenei non è un’esplosione di fanatismo, ma una fredda dichiarazione di strategia. L’Iran si muove secondo logiche ben precise: elevare la minaccia, evitare la guerra totale, ottenere vantaggi negoziali. Ma il margine di errore si restringe. La finestra per una soluzione diplomatica – se esiste – si sta chiudendo. E con essa, anche l’illusione che si possa contenere un conflitto che ormai ha assunto una dimensione regionale e globale.