L’AIEA conferma, l’Uranio al 60%: l’Iran era a un passo dalla bomba
16 Giu 2025 - Medio Oriente
Il recente attacco israeliano trova fondamento in un dato inconfutabile: Teheran ha accumulato oltre 400 kg di uranio arricchito al 60%, soglia tecnica che consente di costruire ordigni nucleari in poche settimane. L’Occidente osserva, Israele agisce.

L’Iran ha superato ogni soglia: l’uranio arricchito al 60% giustifica l’azione militare di Israele
L’offensiva militare condotta da Israele contro obiettivi strategici in Iran non è il frutto di un impulso, ma la risposta misurata e preventiva a un dato scientifico e geopolitico ben preciso: l’arricchimento dell’uranio iraniano ha superato ormai da mesi la soglia di sicurezza internazionale. Con l’accumulo di oltre 400 chilogrammi di uranio arricchito al 60%, Teheran non solo ha infranto gli accordi multilaterali, ma ha costruito — nei fatti — la capacità tecnica di produrre una bomba atomica in poche settimane.
Non si tratta più, dunque, di supposizioni o allarmi preventivi, ma di una realtà documentata anche dagli organismi internazionali. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato il dato in un rapporto pubblicato nel maggio 2025, allertando la comunità globale sull’accelerazione impressa al programma nucleare della Repubblica Islamica. I numeri sono precisi e impietosi: il materiale attualmente stoccato potrebbe essere convertito rapidamente in uranio con grado da arma (90%), sufficiente a realizzare tra le otto e le undici testate nucleari.
Da programma civile a minaccia strategica: la mutazione del nucleare iraniano
Il programma nucleare iraniano è nato con finalità civili dichiarate, ma la progressiva escalation degli ultimi anni ha trasformato quegli impianti in asset strategici a doppio uso. Il salto tecnico dal 60 al 90% di arricchimento non richiede nuove infrastrutture né know-how aggiuntivo: è un passaggio che, secondo fonti dell’intelligence israeliana e americana, può essere completato in meno di un mese, riducendo a zero il tempo di reazione del mondo esterno.
È proprio questa condizione — quella di “nuclear breakout capability” — a giustificare l’intervento israeliano. Un Iran in grado di assemblare una bomba in 3 o 4 settimane rappresenta, agli occhi di Tel Aviv, una minaccia esistenziale. In gioco non c’è solo l’equilibrio regionale, ma la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico, come ha ribadito il premier Netanyahu.
La soglia violata: 60% come livello tecnico, ma 90% come obiettivo politico
Il dato del 60% non è simbolico, ma tecnico. Per comprendere la portata della minaccia, è necessario ricordare che il combustibile nucleare usato nelle centrali civili non supera normalmente il 3–5% di purezza isotopica. Il grado richiesto per testate atomiche è almeno del 90%. Ma il processo di arricchimento non è lineare: salire dal livello naturale (0,7%) al 20% richiede uno sforzo enorme. Passare dal 60 al 90% è invece, paradossalmente, molto più veloce e meno dispendioso.
Per questo motivo, il possesso di grandi quantità di uranio al 60% è considerato dagli esperti come il segnale definitivo che un paese è pronto per la bomba. E l’Iran, oggi, ha non solo il materiale, ma anche le centrifughe di ultima generazione — le IR-6 — e gli impianti (come Fordow e Natanz) attivi e protetti, capaci di completare in tempi brevissimi l’intero ciclo di arricchimento.
La risposta dell’AIEA e il silenzio della diplomazia
La stessa AIEA, nel suo rapporto più recente, ha parlato di “espansione senza precedenti” del programma nucleare iraniano, lamentando ostacoli alle ispezioni e la mancata spiegazione su tracce di materiale fissile trovate in siti non dichiarati. L’agenzia ha emesso una formale risoluzione di censura, segnalando che l’Iran sta accumulando uranio in quantità e con livelli di purezza “non compatibili con scopi pacifici”.
Eppure, nonostante questo, la diplomazia internazionale — in particolare europea — è rimasta inerte, affidandosi a un multilateralismo che l’Iran ha svuotato di ogni credibilità. È in questo vuoto che si è inserita l’azione di Israele, che ha deciso di non attendere che l’arricchimento raggiunga il 90%, ma di colpire ora, quando la minaccia è ancora potenzialmente reversibile.
L’uranio al 60% come punto di non ritorno
L’azione israeliana ha un significato chiaro: il livello di arricchimento raggiunto da Teheran è già, nei fatti, un punto di non ritorno. Chi possiede uranio al 60%, le tecnologie e la volontà politica di resistere agli organismi internazionali, possiede già il potenziale bellico. E quando la distanza tecnica tra capacità e utilizzo effettivo si misura in settimane, non si può più parlare di deterrenza, ma di necessità di intervento.
L’attacco israeliano non è dunque l’inizio della guerra, ma la reazione a un’altra guerra — silenziosa, centrifugata, sotterranea — che l’Iran ha già portato avanti contro l’equilibrio nucleare globale.