La Serbia sull’orlo della crisi: studenti contro Vučić, la piazza sfida il Cremlino
29 Giu 2025 - Europa
Dopo la tragedia di Novi Sad, la gioventù serba guida una protesta nazionale che potrebbe riscrivere gli equilibri dei Balcani. Vučić stringe i legami con Mosca, mentre l’Europa osserva.

Belgrado in fiamme: la protesta studentesca che scuote l’equilibrio serbo
La notte del 28 giugno 2025, Belgrado è diventata teatro di una mobilitazione popolare senza precedenti dalla caduta di Slobodan Milošević. Una folla stimata in centinaia di migliaia di persone, perlopiù studenti, è scesa in piazza per chiedere elezioni anticipate, la fine del governo del presidente Aleksandar Vučić e una risposta concreta a una lunga serie di scandali e inefficienze istituzionali culminate nella tragedia ferroviaria di Novi Sad. La risposta dello Stato è stata dura: uso massiccio di gas lacrimogeni, cariche di polizia, sette arresti, sei agenti feriti, e una capitale paralizzata.
Ma al di là del dato cronachistico, la protesta è il sintomo di un riassetto profondo nei rapporti di forza interni alla Serbia, e di riflesso, di un potenziale riposizionamento geopolitico dei Balcani occidentali.
Una protesta che parte dal basso ma guarda in alto
L’epicentro della rivolta è giovanile e civile: sono gli studenti a guidare il movimento che si è consolidato negli ultimi otto mesi con presidi, sit-in e silenzi simbolici. Il detonatore è stato il crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad nel novembre 2024, che ha causato la morte di 16 persone, evento imputato alla corruzione strutturale e al degrado delle infrastrutture pubbliche gestite da oligarchie fedeli a Vučić. Ma sotto la superficie, fermenta una domanda più ampia: chi guida davvero la Serbia? E in quale direzione geopolitica sta andando?
Il disastro di Novi Sad: la miccia che ha acceso l’incendio
Il 6 novembre 2024, alle ore 11:52, una pensilina della stazione ferroviaria centrale di Novi Sad è crollata durante l’ora di punta. Sedici persone, tra cui tre studenti universitari, sono morte schiacciate sotto il cemento. L’inchiesta giudiziaria è apparsa da subito lacunosa: nessun arresto tra i responsabili del progetto, mentre l’appalto dei lavori risultava assegnato a una società riconducibile a un imprenditore vicino al Partito Progressista Serbo (SNS) di Vučić. La popolazione ha percepito immediatamente la tragedia come il sintomo visibile di un sistema marcio, in cui clientelismo e corruzione prevalgono sulla sicurezza pubblica e la trasparenza amministrativa.
Gli studenti delle facoltà di Ingegneria e Architettura di Belgrado, Novi Sad e Niš hanno dato il via alle proteste nei giorni successivi, istituendo un presidio permanente con il gesto simbolico delle sirene alle 11:52 ogni giorno. Da lì, il movimento si è espanso a livello nazionale, raccogliendo adesioni da intellettuali, artisti e perfino membri dell’ex establishment sportivo e accademico. Novi Sad è così diventata l’epicentro morale della rivolta: il simbolo di una generazione che rifiuta di vivere in una società in cui si può morire a causa di appalti truccati e omissioni di controllo.
Vučić tra Russia, Cina e ambiguità europea
Aleksandar Vučić è da oltre un decennio l’ago della bilancia dei Balcani, giocando una diplomazia ambivalente tra l’Unione Europea, la Russia e la Cina. Nonostante i proclami di adesione all’UE, Belgrado ha rifiutato di allinearsi alle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina, ha firmato accordi infrastrutturali strategici con Pechino (compreso il 5G con Huawei) e continua a ricevere sostegno tecnico-militare da Mosca.
Il risultato è una Serbia sempre più vista da Bruxelles come un paese pivot instabile, che potrebbe sabotare l’allargamento dell’Unione nei Balcani occidentali. Ecco perché le proteste attuali non sono viste a Bruxelles solo come un fatto interno, ma come un possibile punto di svolta geopolitico: se crollasse Vučić, si aprirebbe uno spazio per un governo più filo-europeo e meno equidistante tra Est e Ovest.
Le paure di Mosca: la Serbia come ultimo bastione nei Balcani
Mosca osserva con inquietudine quanto accade a Belgrado. La Serbia, storicamente filo-russa e legata da profondi legami culturali, religiosi e militari, rappresenta per il Cremlino un presidio geostrategico fondamentale nei Balcani. Se dovesse emergere un governo post-Vučić orientato verso Bruxelles e Washington, la Russia perderebbe una pedina centrale nella scacchiera meridionale d’Europa.
Proprio per questo, nelle ultime settimane, sono aumentati i segnali di un sostegno sotterraneo al governo Vučić, attraverso canali informativi e digitali controllati o influenzati dal Cremlino, nel tentativo di delegittimare le proteste come “rivolte colorate” ispirate dall’Occidente.
La sfida interna: repressione e delegittimazione del dissenso
Vučić ha reagito come ogni leader sotto pressione geopolitica: tentando di ridurre lo scontro a una narrativa interna di ordine pubblico. Ha accusato i manifestanti di “terrorismo urbano”, ha ordinato alla polizia di sgomberare con la forza la piazza e ha lasciato intendere la presenza di infiltrati esteri. Ma il movimento studentesco ha mantenuto un profilo civico, istituzionale, e sorprendentemente disciplinato.
La presenza sul palco di Dejan Bodiroga, leggenda del basket serbo e oggi presidente dell’Eurolega, ha avuto un peso simbolico immenso. “Definire terroristi questi giovani, i nostri figli… questa è la loro misura. Ma noi non accettiamo questa misura”, ha detto davanti a migliaia di persone. In quel momento, la protesta ha travalicato la dimensione generazionale, per assumere un significato nazionale.
L’Occidente osserva (e attende)
A Bruxelles e Washington il dossier Serbia è diventato improvvisamente caldo. Se fino a ieri la stabilità apparente di Vučić sembrava una garanzia contro derive autoritarie o islamiste nella regione, oggi l’instabilità interna può diventare una finestra d’opportunità per un riavvicinamento pieno dell’ex repubblica jugoslava all’Occidente.
Tuttavia, i margini di manovra sono stretti. Un sostegno aperto al movimento studentesco potrebbe essere controproducente, alimentando la retorica anti-occidentale del governo. Ma l’inattività, in una fase così delicata, rischia di lasciare campo libero ad attori esterni meno timidi.
Conclusione: la Serbia è al bivio
Le proteste di Belgrado non sono solo un’espressione di malcontento giovanile o rabbia sociale. Sono l’indicatore visibile di una crisi di sistema che coinvolge l’intero equilibrio geopolitico della regione. Il governo Vučić scricchiola sotto la pressione della piazza, ma la sua caduta o sopravvivenza dipenderà anche dalla capacità delle potenze regionali e globali di giocare le proprie carte.
In questo scenario, la Serbia si scopre campo di battaglia tra due visioni del futuro: un’autarchia post-sovietica fondata sul controllo e la verticalità del potere, e una difficile ma necessaria transizione verso l’Europa democratica. Quale strada sceglierà, o quale le sarà imposta, è questione che riguarda tutti noi.