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La resa del PKK e la nuova fase curda: una svolta geopolitica per la Turchia

12 Mag 2025 - Medio Oriente

Dopo oltre quarant’anni di insurrezione armata, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan annuncia il proprio scioglimento. Una mossa che potrebbe ridefinire gli equilibri politici, economici e strategici della regione.

La resa del PKK e la nuova fase curda: una svolta geopolitica per la Turchia

Uno spartiacque nella storia del Medio Oriente

Con un comunicato diffuso all’indomani del 12º congresso generale, tenutosi ai primi di maggio, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato ufficialmente il proprio scioglimento e la cessazione definitiva della lotta armata contro lo Stato turco. È una svolta che chiude un ciclo lungo più di quattro decenni e che segna una possibile transizione dall’insurrezionalismo curdo alla piena politicizzazione del conflitto.

Il bilancio del conflitto tra Ankara e il PKK è tragico: oltre 40.000 morti, centinaia di migliaia di sfollati, una ferita profonda nel cuore del Medio Oriente. Oggi, con il ritiro unilaterale dell’organizzazione dalla scena armata, si apre uno scenario completamente nuovo, in cui la questione curda potrebbe essere riscritta dentro i confini della legalità politica.

La svolta di Öcalan e il ruolo della prigione di İmralı

Detenuto da oltre venticinque anni nell’isola-carcere di İmralı, Abdullah Öcalan – fondatore e storico leader del PKK – ha mantenuto nel tempo un peso determinante nell’universo curdo. Negli ultimi mesi, numerosi segnali facevano presagire un cambio di rotta: la sua dichiarazione di febbraio, in cui invocava la fine della lotta armata e l’avvio di un processo costituente interno al popolo curdo, è stata la miccia politica che ha portato al congresso straordinario e alla decisione odierna.

Il partito ha deciso che sarà proprio Öcalan, pur nella sua condizione carceraria, a svolgere il ruolo di garante morale e strategico del processo di smobilitazione. Una decisione che, se da un lato testimonia la sua immutata autorità, dall’altro impone all’intera comunità internazionale – e alla Turchia stessa – una riflessione sulla futura gestione politica della sua figura.

Una transizione guidata: fine dell’insurrezione o mutazione strategica?

L’annuncio del PKK è stato accolto con cauto ottimismo anche da Ankara. Fonti vicine al governo Erdogan parlano di un “passo positivo verso la normalizzazione”, ma esigono coerenza da parte di tutte le ramificazioni del PKK, comprese le YPG in Siria e le cellule armate presenti nel Kurdistan iracheno. La questione, quindi, non è soltanto interna alla Turchia: riguarda l’intero spazio geopolitico curdo, che si estende come un arco instabile dai monti del Qandil alle province orientali della Siria.

La smobilitazione sarà supervisionata da un coordinamento internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite e si articolerà in tre fasi: cessazione delle attività militari, disarmo verificato e riconversione politica delle strutture territoriali. Un piano ambizioso, ma tutt’altro che scontato sul terreno.

Le implicazioni geopolitiche: Turchia, Iran e lo spazio curdo

Lo scioglimento del PKK ha un impatto che travalica i confini turchi. A Teheran, dove la questione curda resta sensibile, l’eco della decisione viene osservata con attenzione. La Repubblica Islamica teme che una transizione democratica del movimento curdo possa ravvivare i fermenti autonomisti interni. Allo stesso modo, in Siria e Iraq, i curdi delle rispettive aree autonome guardano con interesse a un modello post-insurrezionale che possa favorire un riconoscimento internazionale più forte.

La Turchia, dal canto suo, potrebbe capitalizzare questa svolta per rafforzare il proprio ruolo regionale. Una pacificazione duratura le permetterebbe di spostare risorse militari dal fronte sudorientale verso altri scenari di proiezione geopolitica – dal Caucaso alla Libia – e di offrire maggiore stabilità alle sue relazioni economiche con l’Europa.

Mercati in fermento: la pace piace alla finanza

I mercati hanno immediatamente reagito all’annuncio con segni di entusiasmo: la Borsa di Istanbul ha guadagnato oltre il 3% in un solo giorno, mentre la lira turca ha mostrato un apprezzamento dell’1,3% sull’euro. Gli analisti vedono in questa mossa del PKK un segnale di maturazione del sistema politico turco e un’opportunità per attrarre investimenti nelle regioni a maggioranza curda, da anni escluse dai principali piani di sviluppo.

In particolare, infrastrutture, energia e logistica sono i settori che potrebbero trarre vantaggio da un quadro di maggiore stabilità interna. Il sud-est anatolico, per decenni teatro di scontri e tensioni, potrebbe diventare una nuova frontiera economica se il processo di pace sarà accompagnato da garanzie politiche e inclusione culturale.

Fallimenti del passato: perché oggi potrebbe essere diverso?

La storia recente della Turchia è costellata di tentativi falliti di risolvere la questione curda. Il primo cessate il fuoco, nel 1993, fu ignorato dal governo turco. Nel 1999, dopo la cattura di Öcalan, ci fu un nuovo ritiro delle truppe del PKK, anch’esso disatteso. E infine, il “processo di Imralı” tra il 2013 e il 2015 sembrò promettere una vera trattativa politica, ma fu interrotto bruscamente da una combinazione di attentati, ripresa delle ostilità e mutamenti nel contesto siriano.

Cosa rende diverso il 2025?

  1. Lo scioglimento è definitivo, non condizionato.
  2. Il processo è sorvegliato a livello internazionale.
  3. L’opinione pubblica curda, in particolare i giovani, è favorevole a un nuovo corso politico e meno attratta dalla lotta armata.
  4. Questo non garantisce il successo, ma offre una piattaforma nuova che mai era esistita prima.

Una sfida ancora aperta

Ma sarebbe ingenuo pensare che lo scioglimento del PKK chiuda il dossier curdo. Resta aperta la questione del riconoscimento identitario, della lingua, dell’autonomia amministrativa e – soprattutto – della sorte dei prigionieri politici, molti dei quali incarcerati per il solo fatto di appartenere a strutture parallele dell’universo curdo.

Il futuro della questione curda si gioca ora sul terreno della legittimità democratica. E non basterà la fine delle armi: servirà una nuova grammatica politica, capace di integrare istanze nazionali e pluralismo culturale. In ballo non c’è solo la stabilità della Turchia, ma l’intero assetto geopolitico del Medio Oriente.

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