Il blitz della Marina israeliana
Israele ha confermato oggi, mercoledì 8 ottobre, di aver intercettato la nuova Freedom Flotilla, composta da nove imbarcazioni in navigazione da più di una settimana e dirette verso Gaza. Le navi — secondo quanto riferito da fonti ufficiali — tentavano di rompere il blocco navale imposto per impedire il traffico di armi verso Hamas.
“Un altro vano tentativo di violare il blocco legale e di entrare in una zona di combattimento si è concluso in un nulla di fatto”, ha dichiarato il ministero degli Esteri israeliano su X, aggiungendo che “tutti i passeggeri sono sani e salvi” e che “verranno espulsi il prima possibile”.
Circa 150 attivisti sarebbero stati fermati dalla Marina israeliana e condotti al porto di Ashdod, mentre le imbarcazioni venivano poste sotto sequestro. Fra gli attivisti figurano una decina di italiani, partecipanti alla seconda spedizione della Flotilla.
L’accusa di “pirateria” e la narrazione ideologica
A commentare con toni duri è stato Michele Borgia, portavoce della delegazione italiana della Freedom Flotilla, che ha denunciato “un’azione piratesca” da parte di Israele, sostenendo che le navi siano state attaccate “in acque internazionali” e “a luci spente”. Secondo la sua ricostruzione, i militari israeliani sarebbero scesi dagli elicotteri “con i cavi” per prendere il controllo della nave Conscience, che trasportava personale sanitario e 18 tonnellate di materiale medico.
Una narrazione che si inserisce nel solco della propaganda anti-israeliana portata avanti da anni da organizzazioni internazionali che si autodefiniscono “umanitarie”, ma che di fatto promuovono iniziative dal forte contenuto politico e simbolico, più orientate allo scontro mediatico che al reale aiuto alle popolazioni civili.
L’idea di “rompere il blocco” — ha ammesso lo stesso portavoce — aveva “intento politico, non militare”. Eppure, nel contesto di un conflitto ancora aperto con Hamas e dopo gli attacchi missilistici da Gaza, tale azione appare tutt’altro che innocente: rappresenta una violazione consapevole della sicurezza nazionale israeliana e un potenziale appoggio indiretto all’organizzazione terroristica che controlla la Striscia.
Il blocco marittimo e la sicurezza di Israele
Il blocco navale su Gaza, contestato da anni da attivisti e ONG, è una misura difensiva che Israele considera pienamente legittima secondo il diritto internazionale marittimo. Serve a impedire l’ingresso di armi, droni, esplosivi e tecnologie militari destinate ad Hamas, un gruppo armato che continua a colpire obiettivi civili israeliani.
Il blocco non è un assedio contro i civili — come spesso viene raccontato — ma una barricata di sicurezza in una zona che rimane teatro di operazioni terroristiche. Il suo superamento arbitrario equivarrebbe, in qualsiasi Paese del mondo, a un atto ostile.
La retorica umanitaria si scontra dunque con la realtà dei fatti: Israele continua a garantire corridoi ufficiali per l’ingresso di aiuti, mentre respinge tentativi non coordinati che rischiano di mascherare traffici illeciti o provocazioni orchestrate.
Gli italiani a bordo e il nodo della responsabilità
Sulla nave Conscience erano presenti quattro italiani — due medici, un infermiere e un giornalista — insieme ad altri connazionali distribuiti sulle imbarcazioni a vela. Una presenza che solleva interrogativi sulla valutazione di rischio fatta dai partecipanti e sulla responsabilità di chi organizza missioni del genere.
Se da un lato è legittimo sostenere il diritto all’aiuto umanitario, dall’altro è inaccettabile che cittadini europei si facciano strumentalizzare da reti ideologiche che agiscono in contrasto con le leggi di uno Stato sovrano, esponendosi consapevolmente a un intervento militare in acque di sicurezza.
In un momento di tensione regionale, dove ogni provocazione può degenerare in conflitto, simili missioni finiscono per favorire la narrativa dei gruppi estremisti piuttosto che alleviare la sofferenza della popolazione di Gaza.
La questione giuridica e il doppio standard internazionale
Le accuse di “pirateria” rivolte a Israele suonano paradossali, specie alla luce di una lunga storia di abbordaggi e sequestri compiuti da altri Paesi — Stati Uniti inclusi — senza che la comunità internazionale sollevasse scandalo.
Quando è Israele ad agire per difendere i propri confini marittimi, si mobilita l’intera macchina mediatica dell’establishment progressista occidentale, pronta a gridare allo scandalo, ma silente quando Hamas lancia razzi contro i civili o usa ospedali e scuole come basi militari.
La verità è che la sicurezza di uno Stato democratico è un diritto inviolabile, e Israele, pur criticato, continua a rappresentare l’unica democrazia stabile in un’area dominata da dittature, regimi teocratici e milizie jihadiste.
L’intervento dell’8 ottobre, dunque, più che un “atto di pirateria”, è un’operazione di polizia marittima condotta in piena coerenza con le leggi internazionali e con la tutela dei propri cittadini.
Prospettive e implicazioni politiche
Le prossime ore vedranno il rientro forzato degli attivisti e, con ogni probabilità, nuove campagne mediatiche anti-israeliane da parte delle stesse organizzazioni che da anni mirano a delegittimare lo Stato ebraico.
Nel frattempo, la diplomazia europea — Italia inclusa — sarà chiamata a una prova di equilibrio: difendere i propri cittadini senza legittimare azioni che violano le leggi di un Paese sovrano e alleato.
La Freedom Flotilla, lungi dall’essere una semplice iniziativa umanitaria, si conferma un gesto politico orchestrato per riaccendere il conflitto d’immagine contro Israele.
Eppure, come ha dimostrato anche questo episodio, la sicurezza nazionale israeliana resta salda, sostenuta da una fermezza che molti governi occidentali hanno ormai dimenticato.