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Iran, la bomba mancata: perché l’attacco USA non ha cancellato il programma nucleare di Teheran

26 Giu 2025 - Medio Oriente

La missione con le GBU-57 ha colpito il cuore del sito di Fordow, ma non ha annientato l’arsenale segreto iraniano. Mentre Trump parla di "Hiroshima", l’intelligence USA resta cauta. La sfida nucleare tra bunker, propaganda e deterrenza si riapre

Iran, la bomba mancata: perché l’attacco USA non ha cancellato il programma nucleare di Teheran

Un attacco simbolico, ma non risolutivo

L’operazione americana contro i siti nucleari iraniani ha avuto un impatto forte, ma non definitivo. Nonostante la potenza devastante delle 14 bombe GBU-57 sganciate dai bombardieri B-2 Spirit, gli obiettivi più sensibili del programma nucleare iraniano, in particolare il sito sotterraneo di Fordow, non sarebbero stati completamente neutralizzati. Lo rivelano fonti interne alla Defence Intelligence Agency (DIA) statunitense, secondo cui l’arricchimento dell’uranio potrebbe essere stato solo temporaneamente interrotto, non eliminato.

Il presidente Trump ha evocato Hiroshima come termine di paragone, ma la realtà sul campo racconta uno scenario più complesso: Fordow è scavato a oltre 80 metri nella roccia, una profondità tale da resistere persino ai penetratori più avanzati. E qui risiedeva una delle chiavi più delicate della questione: l’uranio arricchito al 60% U-235, a un passo dalla soglia bellica del 90%.

L’enigma dell’uranio: disperso o salvato?

Il vero mistero, oggi, riguarda i circa 400 chilogrammi di uranio arricchito che l’Iran aveva già accumulato. Le immagini satellitari rilevate prima dell’attacco mostrano un’attività frenetica attorno al sito: camion in movimento, carichi non identificati, potenziali trasferimenti. L’ipotesi più accreditata tra gli analisti della sicurezza è che Teheran abbia anticipato il raid, riuscendo a salvare e trasferire il materiale più prezioso verso siti secondari o depositi protetti ancora ignoti.

L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha confermato che l’Iran ha adottato “misure protettive” sull’uranio arricchito, ma non è stato possibile verificarne l’efficacia. Gli ispettori dell’AIEA sono ancora in attesa di riaccedere ai siti, bloccati da mesi. La diplomazia internazionale si muove, ma resta al palo.

La sfida delle profondità: perché Fordow è ancora vivo

Le GBU-57, note anche come “bunker buster”, sono concepite per penetrare strutture di cemento armato fino a 18 metri. Ma Fordow, sepolto nella montagna nei pressi di Qom, è protetto da almeno 80 metri di roccia. In altre parole: le bombe possono danneggiare gli accessi, compromettere le infrastrutture, ma difficilmente riescono a disintegrare le camere centrali dove avviene l’arricchimento.

A confermare questi limiti sono anche analisti militari statunitensi ed esperti di difesa israeliani. Per Tel Aviv, l’operazione ha comunque ritardato di “anni” il programma nucleare iraniano. Ma per molti al Pentagono il danno è stato più simbolico che strategico.

L’architettura del programma nucleare: resilienza e inganno

L’Iran ha costruito il suo programma nucleare con una logica di ridondanza e opacità. Oltre a Fordow e Natanz (colpito in precedenza da Israele), esistono altri impianti come quello di Isfahan. Inoltre, non è da escludere l’esistenza di laboratori mobili, bunker ancora non noti o dislocamenti temporanei. L’Iran ha imparato dalle esperienze di Iraq, Siria e Libia: un programma nucleare non si custodisce in un unico luogo.

Ma c’è di più: da decenni, Teheran gioca sull’ambiguità tra uso civile e militare delle centrifughe, sfruttando i margini concessi dal Trattato di non proliferazione (TNP). Le stesse centrifughe IR-6 impiegate a Fordow sono ufficialmente dual-use, ma nella realtà hanno un’efficienza che consente di raggiungere arricchimenti anche oltre il 60%.

Trump, l’effetto deterrenza e il rischio escalation

Il raid americano si inserisce in una strategia più ampia: l’invio di un messaggio non solo a Teheran, ma anche a Pechino, Mosca e all’establishment progressista occidentale che ancora spinge per una riapertura diplomatica con l’Iran. Per Trump, questa è l’ora della deterrenza attiva: colpire prima che si arrivi all’arma nucleare, evitando i fallimenti del passato (come in Corea del Nord).

Ma la rappresaglia ha un prezzo. L’attacco potrebbe accelerare la corsa iraniana alla bomba. Teheran, sentendosi vulnerabile, potrebbe decidere di rompere ogni ambiguità e puntare apertamente a una capacità nucleare militare, al fine di ottenere la deterrenza ultima.

Un programma mai morto

Il programma nucleare iraniano non è stato annientato. È stato colpito, ferito forse, ma non disarticolato. Le scorte di uranio arricchito potrebbero essere ancora in mani iraniane, protette in località sconosciute. Le strutture, anche se danneggiate, sono state costruite con logica militare per resistere a scenari di guerra.

Per il mondo, la vera sfida comincia adesso: come evitare che la Repubblica Islamica acceleri verso la bomba? E come impedire che lo scontro frontale diventi la nuova normalità in Medio Oriente?

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Articolo scritto da:
Bruno Bindel

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