Il paradosso del referendum: il PD sconfessa se stesso
8 Giu 2025 - Italia
I quesiti dell’8-9 giugno mirano ad abrogare leggi varate dalla stessa sinistra che oggi le rinnega. E sul tema cittadinanza si tenta di svuotarne il valore. L’astensione si impone come scelta responsabile.

I cinque quesiti referendari: cosa ci chiedono di abrogare
Nei giorni 8 e 9 giugno gli italiani sono chiamati a esprimersi su cinque referendum abrogativi. Si tratta di quesiti complessi, ma con implicazioni molto chiare.
- Quesito 1 – Reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti ingiustificati nelle grandi imprese
Si propone di cancellare la norma del Jobs Act che, per i lavoratori assunti dopo il 2015, limita il reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Se vincesse il “Sì”, si tornerebbe alla reintegrazione più facile anche nelle aziende con più di 15 dipendenti. - Quesito 2 – Risarcimenti senza tetto per licenziamenti ingiusti nelle piccole imprese
Attualmente, nelle imprese sotto i 15 dipendenti, il risarcimento per un licenziamento illegittimo non può superare le 6 mensilità. Il quesito mira a eliminare questo limite, con l’effetto di rendere molto più oneroso per un piccolo imprenditore licenziare anche in presenza di gravi difficoltà. - Quesito 3 – Ritorno dell’obbligo di causale per i contratti a termine
Oggi la legge permette di stipulare contratti a tempo determinato fino a 12 mesi senza dover indicare una motivazione specifica. Il quesito vorrebbe reintrodurre l’obbligo di causale anche per il primo contratto, aumentando rigidità e burocrazia in un mercato del lavoro già affaticato. - Quesito 4 – Responsabilità del committente in caso di infortuni negli appalti
Attualmente, in molti casi, è l’appaltatore diretto a rispondere per eventuali infortuni sul lavoro. Il quesito vorrebbe rendere nuovamente responsabile anche il committente, ampliando notevolmente il perimetro della responsabilità e creando un effetto dissuasivo sugli affidamenti. - Quesito 5 – Cittadinanza agli stranieri dopo 5 anni di residenza
Oggi un cittadino extracomunitario può richiedere la cittadinanza italiana dopo 10 anni di residenza regolare. Il referendum propone di abbassare a 5 anni questo requisito, dimezzando i tempi necessari.
L’assurdità politica: il PD chiede di abrogare una sua stessa riforma
Un elemento surreale ma emblematico emerge dai primi quattro quesiti: il Partito Democratico e le forze di sinistra oggi promuovono l’abrogazione di quelle stesse norme che loro stessi hanno votato e difeso per anni. Il riferimento va in particolare al Jobs Act, la riforma del lavoro varata nel 2015 dal governo Renzi con il sostegno compatto del PD, che ha introdotto proprio quelle flessibilità contrattuali e limiti alla reintegrazione che oggi si vorrebbero cancellare.
È una contraddizione evidente, che svela la natura ideologica e tattica di questi referendum: si agita la retorica dei diritti per coprire un vuoto di coerenza politica. Chi ieri lodava la modernizzazione del mercato del lavoro oggi ne denuncia gli effetti come se fosse stata un’imposizione altrui. In realtà, è un tentativo malcelato di recuperare consenso tra le sigle sindacali e l’elettorato più radicale, sconfessando anni di scelte riformiste. Ma la credibilità, in politica come nel diritto, si costruisce con la coerenza, non con la rimozione della propria storia.
Cittadinanza: un principio da preservare, non un diritto automatico
Tra i quesiti, il quinto è quello che più di ogni altro tocca un fondamento delicato: la cittadinanza non è un orpello burocratico, ma un patto tra individuo e nazione. È l’esito di un percorso serio, fatto di integrazione reale, di conoscenza della lingua, delle leggi, dei valori condivisi.
Ridurre da 10 a 5 anni il tempo minimo di permanenza in Italia per accedere alla cittadinanza rischia di snaturarne il significato. Nessuno nega che esistano percorsi virtuosi di integrazione, ma la legge deve fissare uno standard, non un’eccezione.
Dieci anni rappresentano una soglia di stabilità, durante la quale lo Stato può valutare se chi risiede sul suo territorio ha realmente abbracciato la comunità di cui vuole far parte. Cinque anni, al contrario, sono una finestra troppo breve: si rischia di confondere la permanenza con l’appartenenza.
Inoltre, una cittadinanza concessa con eccessiva leggerezza finisce per perdere valore: smette di essere un traguardo e diventa un automatismo. Ed è proprio nei tempi di forte pressione migratoria, con società sotto stress e territori sempre più frammentati, che occorre alzare la soglia della responsabilità, non abbassarla.
Perché l’astensionismo è oggi un atto politico consapevole
Di fronte a una consultazione così delicata, in cui si punta ad abrogare norme che tutelano l’equilibrio tra libertà d’impresa, responsabilità civile e difesa della sovranità, il silenzio dell’astensione può essere più eloquente di mille voti.
La legge prevede che il referendum abrogativo sia valido solo se partecipa il 50% + 1 degli aventi diritto. Non votare, in questo caso, non è disinteresse ma un chiaro rifiuto della proposta referendaria. È un modo legittimo e strategico per bloccare una deriva normativa che punta a una liberalizzazione dei diritti non accompagnata da doveri.
Chi oggi sceglie di non votare lo fa per difendere un ordine fondato sulla responsabilità e sul merito. Non è disimpegno, ma attenzione. Non è passività, ma difesa attiva di ciò che ha ancora un senso profondo: la cittadinanza come valore, il lavoro come equilibrio tra tutela e impresa, la legge come misura e non come bandiera ideologica.
In un’epoca in cui si tende a cancellare le identità in nome dell’indifferenza globale, a volte il modo più diretto per dire “no” è proprio non partecipare.