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Difendere Netanyahu: la tesi che rompe il fronte occidentale

17 Giu 2025 - Approfondimenti Politici

Mentre lo storico Niall Ferguson esalta l'attacco israeliano come rinascita della credibilità occidentale, la nuova amministrazione Trump impone una linea più pragmatica: no all'eliminazione di Khamenei, sì alla forza, ma con obiettivo negoziale. Netanyahu isolato tra retorica e realtà.

Difendere Netanyahu: la tesi che rompe il fronte occidentale

Ferguson e la tesi della credibilità occidentale

Il recente articolo dello storico Niall Ferguson, pubblicato su The Free Press di Bari Weiss, ha sollevato un acceso dibattito nel mondo della geopolitica. La sua tesi, netta e ambiziosa, è che l’attacco lanciato da Israele contro obiettivi strategici iraniani avrebbe rappresentato un momento di svolta, un atto in grado di “ristabilire la credibilità dell’Occidente” nel nuovo ordine mondiale. Ferguson inserisce questa azione militare nel contesto di quella che definisce “Seconda Guerra Fredda”, nella quale Israele agirebbe come avamposto avanzato della civiltà occidentale contro l’asse autoritario Tehran-Mosca-Pechino.

Secondo lo storico, l’operazione israeliana – condotta in maniera autonoma, rapida e letale – ha mostrato che la deterrenza non è un concetto vuoto e che, anzi, può ancora funzionare quando un alleato occidentale dimostra la volontà di colpire duramente i propri nemici senza attendere l’approvazione della diplomazia multilaterale. In altre parole, Israele avrebbe fatto quello che gli Stati Uniti non fanno più: agire con risolutezza.

Chi è Niall Ferguson e perché lo ascoltiamo

Niall Ferguson è uno degli storici anglosassoni più noti e influenti del nostro tempo. Scozzese, classe 1964, è attualmente senior fellow presso la Hoover Institution della Stanford University e ha insegnato a Harvard e Oxford. Esperto di storia economica, imperi e guerre globali, Ferguson è noto per le sue tesi anticonformiste e per una visione realista e talvolta muscolare della storia. È stato anche consigliere di politica estera per figure come John McCain e ha sempre difeso un ruolo forte dell’Occidente nello scacchiere internazionale.

Ciò che rende particolarmente interessante il suo recente intervento su Israele è che si tratta di una delle pochissime voci autorevoli nel mondo angloamericano che ha espresso un sostegno esplicito e motivato alla strategia militare del governo Netanyahu. In un panorama mediatico in gran parte critico o ambiguo nei confronti di Israele, la posizione di Ferguson rompe il coro, difendendo non solo la legittimità dell’azione israeliana, ma anzi esaltandone il valore strategico globale.

Una lettura che ignora la nuova leadership americana

Tuttavia, questa narrazione, per quanto suggestiva, appare oggi parzialmente anacronistica. Ferguson ha elaborato la sua analisi nella fase conclusiva della presidenza Biden, quando l’amministrazione americana appariva indecisa, impantanata in mediazioni inconcludenti e incapace di dettare una linea chiara in Medio Oriente. Ma il contesto è drasticamente mutato: Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, e la sua presenza cambia radicalmente il quadro.

Trump, intervenuto a margine del G7 con dichiarazioni nette, ha confermato il suo sostegno all’autodifesa israeliana, ma ha anche frenato su una possibile escalation fuori controllo. Ha respinto con decisione – secondo fonti confermate dal HuffPost e da Time Magazine – un piano israeliano per colpire direttamente la guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ritenendo l’opzione eccessivamente provocatoria e potenzialmente in grado di innescare una guerra totale nella regione. È lo stesso Trump ad aver affermato, in un’intervista al New York Post, che “l’Iran ora vuole negoziare. Non stanno vincendo. Stanno cercando una via d’uscita”.

Netanyahu e la tentazione della guerra lunga

In questo scenario, la posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu appare ancora più ambigua. Da un lato, è indubbio che abbia capitalizzato sul successo dell’offensiva, riuscendo a colpire obiettivi sensibili e ottenendo un momentaneo consolidamento del proprio potere interno. Ma dall’altro lato, il rischio è che il conflitto venga trascinato in avanti ben oltre le necessità strategiche, diventando uno strumento per rinviare il giudizio politico interno e alimentare una tensione permanente con l’Iran, utile a giustificare lo stato d’emergenza.

Ferguson, nella sua analisi, evita accuratamente di entrare nel merito delle motivazioni politiche interne che muovono Netanyahu, dipingendolo come un freddo stratega razionale. Ma la realtà è ben più complessa. Netanyahu è oggi un leader politicamente assediato, che usa la guerra anche per coprire le fragilità del suo governo e le contestazioni crescenti che giungono non solo dall’opposizione israeliana, ma anche da parte della società civile e dell’intelligence.

Trump e la nuova linea del potere americano

Donald Trump non è un pacifista, ma è un leader pragmatico. Durante la sua prima presidenza evitò di coinvolgere gli Stati Uniti in nuovi conflitti, e oggi sembra deciso a non farsi trascinare in una guerra aperta con l’Iran. Questo non significa che abbandonerà Israele: al contrario, il messaggio lanciato a Teheran – “negoziate adesso o preparatevi a conseguenze peggiori” – ha tutta l’aria di un ultimatum in stile Trump. Ma a differenza di Ferguson, che sembra auspicare un’escalation per ridefinire l’ordine globale, il presidente americano appare intenzionato a controllarla, incanalandola verso una soluzione negoziale che possa garantire una vittoria diplomatica e geopolitica senza il disastro di una guerra regionale.

La visione di Ferguson, insomma, riflette una fase già superata. Oggi la vera credibilità occidentale – se ancora può essere rivendicata – si gioca sulla capacità di Trump di mediare da una posizione di forza, evitare la trappola di una guerra di logoramento, e imporre un nuovo equilibrio mediorientale che ponga l’Iran davanti a una scelta chiara: trattare o rischiare l’isolamento strategico.

Una geopolitica che richiede leadership, non retorica

La vera domanda non è se Israele abbia dimostrato forza – lo ha fatto – ma se questa forza sia sostenibile e funzionale a un ordine più stabile. Ferguson risponde sì, ma lo fa partendo da un presupposto ideologico: che la guerra sia una forma di rigenerazione occidentale. Trump, invece, si muove da una logica transazionale, dove la guerra è solo l’estrema ratio per negoziare un nuovo assetto.

La storia dirà chi aveva ragione. Ma se l’Occidente vuole davvero essere credibile, dovrà dimostrare non solo di saper colpire, ma anche di saper governare le conseguenze dei propri atti. Ed è in questo che Trump, oggi, potrebbe sorprendere molti dei suoi critici.

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Articolo scritto da:
Antonio Antipari

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